Fast Fashion: cosa è [e cosa si nasconde dietro la tua T-shirt]

di Giorgia Tizzoni 1 visite

Durante i Saldi, per il Black Friday, un po’ per noia o semplicemente per autogratificazione: comprare capi moda è ormai diventata un’azione scontata e meccanica. Qualcuno ogni tanto dà un’occhiata all’etichetta per accertarsi della composizione del tessuto, altri badano solo all’estetica, altri ancora solo al prezzo. Purtroppo però, dietro a quella maglia acquistata nella grande distribuzione ad un prezzo stracciato, c’è molto di più di un semplice “affare imperdibile”.

Se non sai di cosa stiamo parlando ti consiglio di proseguire nella lettura perché stai per scoprire cosa nasconde davvero la tua T-shirt e quell’enorme macchina fabbrica soldi chiamata Fast Fashion.

Cos’è il Fast Fashion?

Sebbene tu possa non aver mai sentito parlare di Fast Fashion, sono quasi certa che tu lo abbia acquistato almeno una volta.

Fast Fashion significa letteralmente “Moda Veloce” ed è un modello di business molto redditizio tipico di Aziende della Moda quali ZARA, H&M, Uniqlo, Mango, Promod e Top Shop (solo per citarne alcune).

I marchi di Fast Fashion immettono sul mercato piccole collezioni di capi prodotti in serie, senza soluzione di continuità e con tempistiche ridotte (una ogni 15 giorni circa). Il basso costo di produzione e vendita unito ad una distribuzione capillare basata sul cosiddetto Mass Market concludono il quadro, facendo diventare il Fast Fashion oltre che un fenomeno di massa, uno dei casi di consumismo più emblematici del nostro tempo.

Amancio Ortega e il Caso ZARA

Amancio Ortega è il pioniere della Fast Fashion, è molto probabile che questo nome non ti suoni famigliare così come la INDITEX, l’azienda multi miliardaria di cui è a capo. Se però ti nominassi ZARA?

Amancio Ortega altri non è che “Il Signor ZARA” e nel Maggio 2022 è stato indicato da Forbes come uno degli uomini più ricchi al mondo (e di Spagna) con un patrimonio di 55,5 miliardi di dollari.

Ortega ha creato da zero il concetto di Fast Fashion, muovendo i primi passi nel mondo della moda a soli 14 anni nei panni di fattorino presso una sartoria di La Coruna.

Nel 1963 ha aperto il suo primo negozio e nel 1975 il suo primo punto vendita Zorba, chiamato poi successivamente ZARA.

Nonostante il primo negozio ZARA sia stato costretto a chiudere i battenti solo dopo qualche anno di attività, le successive aperture si distinsero da subito per avere una marcia in più. Ortega era convinto del suo progetto ed era deciso ad avere successo, per questo motivo ogni nuovo punto vendita veniva studiato meticolosamente a partire dalla location: nulla era lasciato al caso.

Nel 1985, insieme alla moglie Rosalia, fonda il gruppo INDITEX e il progetto ZARA, così come lo conosciamo oggi, prende ufficialmente il via.

Amancio produce pochi pezzi, non ha magazzino e tutto ciò che vende viene esposto in negozio senza possibilità di riassortimento. A tutto questo si aggiungono prezzi competitivi e la vendita di modelli che strizzano l’occhio ai capi visti sulle passerelle di alta moda. Le linee intriganti, i prezzi concorrenziali e il continuo riassortimento di novità fanno di ZARA e INDITEX una vera miniera d’oro in grado di dare vita a quel nuovo modello di Business chiamato Fast Fashion.

Il successo del Fast Fashion

Il successo del Fast Fashion raggiunge il suo massimo apice a cavallo degli anni 2000. Per la prima volta le persone comuni possono vestire alla moda senza dover spendere cifre da capogiro. Alcuni sostengono che la Fast Fashion possa essere accostata al concetto del “usa e getta”, in realtà non è propriamente così poiché molti dei capi acquistati, seppur di scarsa qualità, sono in grado di durare anni.

La Fast Fashion, più che un indumento usa e getta fine a se stesso, vende prima di tutto libertà di espressione attraverso il vestiario. L’ampissima scelta e il basso prezzo danno modo al consumatore finale di poter acquistare in quantità ma soprattutto in eccesso. Il vestito quindi non viene più inteso come capo funzionale ma viene utilizzato come mezzo espressivo per comunicare all’esterno appartenenza e stati d’animo.

Un po’ di numeri

Sino ad adesso abbiamo affrontato in modo teorico il tema della Fast Fashion per farti comprendere il suo funzionamento ma, come abbiamo già detto, la moda Fast Fashion è, e rimane soprattutto, un business che muove miliardi di dollari.

Secondo un articolo del Sole24ore.com del 2 Settembre 2022, attualmente il settore Fast Fashion vale poco meno di 100 miliardi di dollari a livello globale e dovrebbe raggiungere i 133 miliardi di dollari entro il 2026.

In particolare poi, il gruppo INDITEX (di cui fanno parte Zara, Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius, Oysho, Uterque e Tempe) fattura da solo circa 20,4 miliardi l’anno grazie ai suoi 6.829 negozi in 96 paesi e ad una media di 12.000 nuovi modelli l’anno sfornati da oltre 300 designer che lavorano incessantemente.

H&M, secondo solo a ZARA, fattura invece 18,5 miliardi di euro l’anno.

Quanto inquina il Fast Fashion

Questi ritmi di produzione uniti a prezzi eccessivamente bassi purtroppo hanno un costo. L’Industria della Fast Fashion infatti è una tra le più inquinanti al mondo e una di quelle che tutela meno i propri lavoratori, fenomeno ulteriormente accentuato dalla dislocazione della mano d’opera.

Sostenibilità

Moda e sostenibilità sembrano non aver nulla in comune: la sola industria della moda infatti è responsabile del 10% dell’inquinamento globale, aggiudicandosi il secondo posto come settore più inquinante al mondo dopo quello petrolifero.

Secondo una ricerca pubblicata su “Nature Reviews Earth and Enviorment” il settore moda ogni anno consuma 1.500 miliardi di litri d’acqua, produce 190.000 tonnellate di microplastiche e 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili.

Per correre ai ripari, nonostante la situazione quanto mai disastrosa, i Brand della Fast Fashion negli ultimi anni stanno cercando di ripulire la propria immagine promovendo campagne a favore della Sostenibilità come il ritiro degli abiti usati, maggior impegno nell’utilizzare cotone biologico o fibre sintetiche riciclate e rendere la propria filiera produttiva più trasparente.

La strada verso una vera Sostenibilità però sembra ancora molto lunga, tortuosa ma soprattutto in salita.

Tracciabilità delle Materie Prime

Se la situazione così descritta ti sembra già alquanto allarmante per non dire catastrofica, è giusto porre l’accento anche su un altro grande problema della Fast Fashion: la tracciabilità delle materie prime.

Nessuna delle Aziende che abbiamo citato in quest’articolo produce o si approvvigiona delle materie prime in loco. La prassi è quella di appoggiarsi ad Aziende terze, le quali a loro volta si avvalgono del lavoro di Aziende più piccole in un infinito “scarica barile” di difficile ricostruzione.

Questo modus operandi rende quasi impossibile risalire a tutti i passaggi di mano che avvengono in fase di produzione dei capi e verificare la serietà dei fornitori, questa situazione quindi lascia ampio spazio a situazioni di degrado sia lavorativo che ambientale.

La mano d’opera

La mano d’opera è il settore che ha gettato maggior ombra e scandalo sull’industria della Fast Fashion, il cui culmine è stato raggiunto nel 2013 con la tragedia del Rana Plaza a Savar (Dacca), in Bangladesh.

Se sino a quel momento la maggior parte delle persone non era a conoscenza delle terribili condizioni lavorative che si nascondevano dietro quei vestiti acquistati a pochi euro, dopo i fatti accaduti nel Bangladesh tutto il mondo ha dovuto aprire forzosamente gli occhi e accorgersi delle condizioni disumane e insostenibili in cui versavano i lavoratori.

Il 24 Aprile 2013 alle ore 8.45 del mattino il Rana Plaza, un edificio commerciale di 8 piani, crolla a causa di un cedimento strutturale. Nel disastro perdono la vita 1134 persone e ne rimangono ferite 2.515. Delle 1134 vittime più della metà erano donne. Nella tragedia inoltre hanno perso la vita anche numerosi bambini (figli delle stesse lavoratrici) che frequentavano gli asili nido aziendali.

Le persone rimaste uccise o ferite nel crollo del Rana Plaza, altri non erano che dipendenti di aziende tessili che producevano capi per brand occidentali come Benetton, Camaieu, Primark, H&M, Inditex, Wallmart e molti altri (fonte Wikipedia.org).

In seguito al crollo si scoprì che il giorno prima l’intero edificio era stato evacuato perché non ritenuto sicuro a causa di vistose crepe, i lavoratori delle aziende tessili però furono costretti a rientrare ugualmente sotto la minaccia di vedersi decurtato un mese di stipendio.

Le conseguenze del Rana Plaza

La tragedia del Rana Plaza ha dato vita a fortissimi movimenti di protesta e ha finalmente portato alla luce le vergognose condizioni in cui erano costretti a lavorare oltre 5 milioni di lavoratori del settore tessile solo nel Bangladesh e più in generale nei paesi in via di sviluppo.

A seguito dell’incidente di Dacca è stato discusso l'Accordo sulla sicurezza delle fabbriche e delle costruzioni in Bangladesh, Walmart (insieme ad altre 14 aziende del Nord America) ha rifiutato di firmare l'accordo proponendone successivamente uno di proprio pugno contenente però clausole meno rigorose rispetto a quelle strette con le imprese europee.

Dei 29 marchi identificati come aventi prodotti provenienti dalle fabbriche del Rana Plaza, solo 9 hanno partecipato alle riunioni per concordare una proposta di risarcimento alle vittime e solo 7 hanno contribuito al Fondo Fiduciario dei donatori del Rana Plaza sostenuto dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

Primark ha invece concesso un risarcimento di 200 dollari solo alle famiglie degli operai in grado di fornire prova della morte di un parente nel crollo tramite test del DNA.

Il caso Studio di Clean Clothes Compaign

Al netto di tutto quello che hai potuto leggere sino ad adesso, pensiamo sia giusto concludere il discorso sulla Fast Fashion calcolando, numeri alla mano, ciò che i tuoi soldi finanziano ogni qualvolta compri un capo pronto moda.

Per farlo riporterò qui di seguito il caso studio di Clean Clothes Compaign, il quale ha calcolato i veri costi nascosti dietro all’acquisto di una T-shirt da 29€:

PREZZO AL DETTAGLIO – 17€ (59%)

PROFITTO DEL BRAND – 3,61€ (12%)

COSTO DELLE MATERIE PRIME – 3,40€ (12%)

COSTI DI TRASPORTO – 2,19€ (8%)

INTERMEDIARI – 1,20€ (4%)

PROFITTO DELLE AZIENDE TESSILI IN BANGLADESH – 1,15€ (4%)

SPESE ACCESSORIE – 0,27€ (0,9%)

PAGA DEL LAVORATORE – 0,18€ (0,6%)

Facendo un ulteriore rapido calcolo, sapendo che un operaio in una fabbrica tessile del Bangladesh guadagna circa 100€ per un mese di lavoro, significa che in 30 giorni confeziona circa 555 T-shirt. Se lo stesso lavoratore ambisse poi ad uno stipendio di 800€ dovrebbe cucire più di 4000 maglie.

Lascio trarre a te le conclusioni su questa triste pagina del mondo della moda.